Un detto popolare recita che “la miglior difesa è l’attacco“.
I popoli delle steppe indoeuropee addomesticarono gli antenati degli equidi già nel 2700 a.c. raggruppandoli in branchi e servendosene come fonte di cibo.
Testimonianze in forma di graffiti e pitture rupestri attestano l’esistenza di carri a due ruote fin dalla protostoria, orientativamente nella prima metà del IV millennio a.C.
Per comprendere meglio le diverse possibilità d’impiego dei carri fin dall’antichità occorre fare un piccolo excursus a macchia di leopardo tra numerose fonti letterarie.
Nel II millennio il carro è raffigurato in scene religiose, in azioni belliche nonché in corse a carattere ludico-competitivo.
Il primo testo antico dell’epoca a parlarci del carro con ruolo solenne è la Bibbia (genesi XLI 43) nel racconto dell’innalzamento di Giuseppe alla carica di primo ministro, raffigurato “in ginocchio” mentre veniva trasportato sul secondo dei carri del faraone, probabile anticipazione del carro trionfale romano.
Già molti secolo prima di Cristo i carri venivano utilizzati in guerra così come testimoniato nell’Iliade scritta nel VII secolo a.C. le cui vicende sono ambientate almeno quattro-cinque secoli prima.
In guerra era di solito usato in due modi diversi: per trasportare sul campo di battaglia un oplite munito di corazza, armato di lancia e scudo che combatte a piedi, come raccontato da Omero stesso o altrimenti utilizzato come una sorta di piattaforma mobile per tiratori con l’arco, grazie alla possibilità di rimanere parzialmente coperti dai dardi avversari.
Interessante testimonianza appresa dai bassorilievi è l’utilizzo in questa circostanze di “trighe”, per la responsabilità demandata al terzo cavallo di proteggere fisicamente il timoniere.
Negli usi cinegetici gli equipaggi armati di arco, vengono rappresentati all’inseguimento della selvaggina generalmente su tiri singoli, onde potersi muovere agevolmente su percorsi impervi e sconnessi.
Saranno gli Elleni ad utilizzare i carri per usi competitivi.
Fin dalla prima Olimpiade infatti gli aurighi alla guida di bighe, trighe e quadrighe, diedero vita a degli spettacoli eccellenti nondimeno con partecipazioni illustri come quelle degli Imperatori Nerone, Commodo, Vitellio e Caracalla, nonché Cesare e Tiberio. Quest’ultimo, egregiamente insignito con un bronzo ad Olimpia.
Interessante anche gli archetipi degli attuali finimenti a “collare” e a “pettorale”.
Infatti, la testimonianza più antica è il carro di Tut’Ankhamun.
L’armatura fissa era costituita da forcelle fissate ad un giogo. Altre modalità di attacco erano il “giogo a tacche” degli Assiri; ad “arpione” degli Asiatici; a “collare” degli Etruschi.
Quest’ultimo, in particolare detto giogo da incollatura per il fatto che il giogo è posto più avanti rispetto al garrese del cavallo ed è da considerarsi il precursore del collare da spalla che prese piede intorno al X secolo d.C.
Per questa particolare forma di trazione, sino all’introduzione (tardiva) del sellino, l’asse del rotabile risiederà nella parte posteriore del pianale onde procurare il necessario squilibrio in avanti atto al mantenimento del contatto con l’incollatura in tutte le circostanze.
In Grecia intorno al VII secolo a.C. la trazione con “pettorale” verrà utilizzata su attacchi leggeri, prevalentemente atti al trasporto.
A questo punto, non si renderà più necessario sbilanciare il pianale dell’asse, risolvendo la questione con un fascione morbido intrecciato, atto a captare la potenza dell’animale collegandolo ad un giogo dorsale.
SISAL ante litteram…
Un’interessante curiosità riguarda l’importante “” che imperversava intorno alle Olimpiadi già dal I secolo avanti Cristo.
Considerandolo un vero e proprio business, gli aurighi si cimentavano nei modi più bizzarri per “aggiustare” l’evento sportivo nel modo più remunerativo possibile per i propri interessi.
Un folto giro di allibratori e scommesse testimoniato anche da alcuni versi di Filostrato nella sua esortazione ufficiale ai giudici dell’Olimpiade “abbandonare volontariamente l’ippodromo qualora si fossero macchiati di turpitudini legate alla corruzione, invece di onorare e magnificare la festa olimpica come avrebbero dovuto“.
Ovviamente partecipare ai Giochi Olimpici, nonostante gli “intrallazzi”, risultava motivo di vanto e di grande prestigio, anche per i potenti del tempo.
Un esempio tra tutti Alcibiade, stratega ateniese, riconvertito a “Sparta” qualche anno più tardi, allevatore ed eccellente addestratore di cavalli, annovera nel proprio curriculum innumerevoli partecipazioni alle corse di Delfi, Olimpia e Corinto, non senza suscitare polemiche.
Infatti, generalmente vantava la proprietà di ben quattro delle sette quadrighe schierate alla partenza, ovviamente condotte da uomini di propria fiducia che non esitavano puntualmente, e non senza gesta spettacolari, ad avvalorare la sua superiorità “e pecunie”… per una tradizione olimpica che cavalcò attraverso i tempi per oltre settecento anni, accompagnandosi in senso storico alla decadenza dell’Impero Romano fino al 394, anno in cui Teodosio cedette alle pressioni del Vescovo Ambrogio, indignato per la paganizzazione di taluni eventi, e soppresse definitivamente i Giochi Olimpici.
Testo a cura di Annalisa Parisi
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