Condividiamo con i nostri lettori appassionati del CAITPR un bellissimo articolo di Aldo Bolla, già pubblicato nel 2012 sulla nostra rivista OBIETTIVO CAITPR.
“Si chiama CAITPR o se proprio vuoi Cavallo Agricolo Italiano da TPR!”
E ancora mi par di sentire le lezioni ufficiali dalla A alla Z.
Sì ma vuoi mettere? Ti pare la stessa cosa chiamare, fra amici s’intende, il nostro Grande Gigante Gentile (G.G.G, parafrasando Roald Dahl) Agricolo Italiano da TPR o non piuttosto semplicemente TPR?
Secco come un sonoro colpo di zoccolo, pieno e rotondo in bocca come un buon rosso invecchiato, morbido e potente come lui ci piace; e allora per stavolta chiamiamolo tranquillamente TPR!
L’unica razza italiana da tiro rapido pesante come si diceva un tempo, dando così quasi più enfasi al rapido che al pesante.
Del resto e cito il Chiari, forse il più illustre ippologo dell’ottocento: l’Italia non è mai stata area d’allevamento di cavalli da tiro pesante, preferendosi l’importazione dal Belgio e dalla Francia.
Fino a quando non ci pensarono i militari che, sul finire dell’ottocento, decisero di “costruire” l’agricolo- artigliere: un cavallo potente ma nevrile e veloce, che andasse bene per la guerra ma anche per gli usi civili.
Per diffonderne l’allevamento, e garantirsi così un vasto bacino cui attingere in caso di eventi bellici, il Ministero della Guerra (così si chiamava allora l’attuale Ministero della difesa) diffuse sul territorio numerosi “stalloni selezionati” per la produzione di cavalli da servizio ma anche per costituire quei nuclei di fattrici selezionate che ancora oggi nelle nostre campagne vengono ricordate come “le cavalle dell’esercito”.
Si organizzavano raduni di selezione in occasione di fiere con l’elargizione di consistenti contributi ai migliori prodotti, le “prime” come si chiamavano allora, e si controllava annualmente la produzione degli stalloni statali.
Il TPR, come noto, origina ufficialmente nel 1927 in quella pianura padana orientale dove erano diffuse numerose razze di cavalli mesomorfi da tiro veloce, rinsanguate fin dai primi del 900 con stalloni pesanti come il Belga o medio pesanti come il Norfolk Bretone e, prima ancora, fin dagli anni dell’unità d’Italia, col Polesano.
Io però, volevo proporre una sorta di viaggio nel tempo per vedere le origini di questo cavallo. Mi si dirà: “Eeh! Ma già si è scritto, si sa tutto sulle linee maschili che hanno fondato la razza, e si conoscono anche le genealogie fin dai primi del ‘900!”
Sì, è vero, si sa quasi tutto sugli stalloni capostipiti e sui loro discendenti, ma… le linee materne? Cosa si conosce di queste? Se va bene, quasi nulla.
Nei documenti storici al massimo si nomina il padre, beninteso qualora ritenuto desiderabile per la nuova razza del cosiddetto ”agricolo-artigliere” che si stava costruendo, oppure trovi scritto derivata bretone, piuttosto che belga, e sennò indigena, raramente Polesana o Piave!
É proprio su questa questione dell’indigena che vorrei soffermarmi; perché il moderno TPR discende da questa, da quella cavalla di famiglia che tirava il carro in campagna e si attaccava al biroccino la domenica, che, anche se aveva un pedigree lungo e profondo una volta all’anno, alla stazione di monta veniva seccamente etichettata: indigena!
Oggi, almeno conserviamo il ricordo di loro.
In realtà, anche se all’epoca non esistevano ancora i Libri genealogici (al massimo i registri di monta dei Regi depositi stalloni) non mancavano le razzette o popolazioni locali con caratteristiche morfologiche (e probabilmente anche genetiche) omogenee e ben fissate; tali da farcele considerare, almeno per alcune, vere razze.
La Piave, la più diffusa, estinta definitivamente negli anni 60 del novecento, e poi la Friulana, la Latisanotta del Friuli meridionale, la Caporettana dalla valle dell’Isonzo e la Polesana della bassa pianura veneto emiliana, oltre a numerosi cavalli provenienti dalle vicine Slovenia, Istria e Croazia; l’Istria, pur appartenendo oggi alla Croazia, allora era italiana e i suoi cavalli meritano un discorso a parte.
Va ricordato che Veneto e Friuli, con l’Istria e parte di Slovenia e Croazia, erano territorio prima della Serenissima Repubblica di Venezia e poi dell’Impero austro-ungarico; erano frequenti quindi gli scambi fra le diverse popolazioni e in materia equestre probabilmente venivano adottate scelte selettive comuni. I cavalli di questa vasta area differivano anche notevolmente nel modello.
All’estremo nord i Caporettani e i cavalli sloveni, quasi certamente derivati norici, erano di taglia medio pesante, come, a sud dell’area, lo era la Polesana imparentata questa anche col Cremonese e insanguata quindi col Belga o con l’Ardennese.
Più leggeri, anche se con attitudini e modello a volte diversi, erano i cavalli della zona centrale della pianura: quelli di razza Piave, Friulana e Latisanotta, i cavalli croati e i cavalli istriani o Pujani.
Nell’area del Nord Est, anche fino ad anni recenti, erano molto diffusi i cavalli da lavoro leggero provenienti dall’ex Jugoslavia, etichettati tutti in modo generico come “croati”.
Perché allora distinguo i croati dagli istriani? Perché erano diversi: il croato era originario della Croazia interna e molto simile a quello allevato lì ancor oggi: abbastanza piccolo di statura, con groppa ampia e doppia, un po’ lungo di schiena, testa a profilo rettilineo con espressione arabeggiante.
L’istriano o Pojano o Pujano invece, probabilmente discendeva dal cavallo del Carso, imparentato quindi col gruppo Piave, cui assomigliava molto nel temperamento e nel modello, e un po’ anche col Lipizzano.
Sul Pujano a dire il vero non ho trovato documenti storici ma solo “storie della memoria”.
Tutto è nato qualche anno fa quando il Comune di Lonigo, sede di una delle più antiche ed importanti fiere di cavalli d’Europa, (“ceduta” a Verona solo pochi decenni fa) decise di erigere un monumento al tipico cavallo da lavoro di fine 800 di quella parte della pianura veneta e mi chiese di scrivere qualcosa su questo cavallo Pujan.
Inizialmente perplesso ipotizzai subito che il nome potesse derivare o dalla storpiatura di “Polesan” o dalla toponomastica, che spesso fa riferimento alla famiglia dei nobili Pojana. Successivamente, stimolato dalla curiosità e dalle poche notizie avute, cominciai a raccoglierne altre: racconti di vecchi e ricordi dei racconti dei vecchi.
Notizie scarse e frammentate, ma conformi fra loro, che mano a mano fecero riaffiorare anche i miei ricordi di storie di gente di cavalli di quando ero un po’ più giovane.
Mi si ripresentarono, improvvisamente freschi, anche i racconti di un vecchio maniscalco, “Parte” diminutivo di Bonaparte come si chiamava, che circa 40 anni fa dopo aver smesso di lavorare in età veneranda, continuava a frequentare casa mia solo per respirare aria di cavalli; ne erano rimasti ben pochi nelle campagne!
Il vecchio Parte, che se non ricordo male era emiliano di origine, raccontava di questi cavalli, distingueva nei tipi da corsa e da lavoro i “Piave” e i “Furlani” che diceva fossero la stessa razza, e parlando dei “cavalli croati” affermava che ce n’erano di diversi tipi. Quelli migliori erano quelli di Pola, diceva, più grossi dei “bosniaci” e che come “sangue” assomigliavano ai “Furlani” anche se il mantello non era sempre grigio.
L’origine del nome Pujano (Pujan in veneto) è allora probabilmente simile a quello della razza bovina Pujese o Pojese allevata in Veneto per il lavoro fino a 50 anni fa, che si credeva originaria della Puglia e di ceppo podolico e invece le ricerche genetiche ne hanno dimostrato la strettissima parentela col Boskarin istriano.
L’origine del nome fa quindi riferimento alla regione istriana che ha capoluogo la città di Pola (Pula); aah! La Serenissima centra ancora! Comunque del Pojan non c’è più traccia mentre la Pujese si sta ricostruendo utilizzando il Boskarin; oggi possiamo dire che sono la stessa razza.
Sulla Piave, non il fiume che in dialetto veneto viene declinato al femminile, ma il cavallo di razza Piave, bisognerebbe dedicare un po’ più dello spazio concessomi perché era la razza che meglio rappresentava quel cavallo tuttofare di cui si diceva: “forte come il ferro e carattere da vendere” racconta ancora chi se la ricorda.
Secondo alcuni la Piave comprendeva anche la Friulana e la Latisanotta, un po’ più pesante quest’ultima ma comunque affine. Probabilmente, la differenziazione era più una questione di campanili che di geni; di qua del Tagliamento si chiamava Piave, di là Friulana.
Tanto è vero che in una relazione dell’anno 1900 pubblicata sul “Bullettino dell’Associazione agraria friulana” si legge: “I pochi soggetti che ancora si avvicinano al vecchio stampo, sia per il mantello che per qualche attitudine come velocità e resistenza, si riscontrano lungo il Piave e nel distretto di Latisana fino a Portogruaro”.
Era quindi una razza a prevalente mantello grigio, leggera, rustica e veloce, abbastanza angolosa ma con buoni diametri traversi, almeno per l’epoca, che veniva impiegata sia nelle prime corse al trotto di metà ottocento, sia per tirar fuori i carri (i carioti) di ghiaia dal greto del Piave e del Tagliamento.
Era questo un lavoro più adatto a cavalli di maggior mole ma cui la Piave sopperiva con la grande nevrilità e coraggio di cui era dotata.
Il Cav. Breda, fondatore dell’omonimo ippodromo di Padova e il Cav. Rossi, due fra i più importanti allevatori del trottatore delle origini, negli anni 70 dell’ottocento importarono i primi stalloni da corsa americani da utilizzare su fattrici trottatrici Piave, accanto a cavalle purosangue e Orlov.
I migliori risultati li ottennero proprio con le fattrici di razza Piave che in linea femminile è ancora presente nel trottatore italiano.
Come facessero queste cavalline a percorrere anche 150 km in un giorno e a smuovere una tonnellata dal greto di un fiume qualche vecchio cavallante ancora se lo chiede.
Il declino ci questa razza comincia proprio in quegli anni a cavallo fra 800 e 900 dovuto essenzialmente alle mutate condizioni economiche che richiedevano cavalli più pesanti e all’intensificazione agricola che ridusse le aree a pascolo.
Cosa ci resta di questa? Sicuramente una ormai lontana parentela in linea femminile fra TPR e trottatore italiano, qualche spruzzata di grigio in poche cavalle nella zona dell’alto Veneto e sicuramente la nevrilità che il TPR ha conservato malgrado l’uso, a volte eccessivo, di sangue Bretone. Ecco mi piace pensare che, in fondo in fondo, la Piave e gli altri cavalli dell’epoca non siano del tutto scomparsi ma si siano in qualche modo sublimati nell’attuale TPR.
Del resto si sta riscoprendo anche da noi l’importanza delle linee femminili, mai trascurate dai popoli germanici, le uniche a trasmettere quel DNA mitocondriale che ci permette di ricostruire la storia dell’evoluzione di una specie.
Dimenticavo, ci resta ancora una cosa importante: la consapevolezza del ricordo.